mercoledì 30 marzo 2011

New Italian Epic

Finito il primo semestre, cominciano i corsi intensivi. Uno di questi trattava del fenomeno della New Italian Epic, e per l'esame, scrittura creativa: un racconto berve nello stile della nuova epica italiana: epicità, analisi storica, rilettura della Storia in chiave eroica. Se volete avere un idea dello stile New Italian  Epic leggete "Gomorra" o "Romanzo criminale", oppure limitatevi a leggere il mio racconto.


L’AEREO HA SORVOLATO CASA MIA
Era lì, seduto davanti alla scrivania, quella scrivania di legno smaltato dove il pomeriggio faceva i compiti o leggeva qualche fumetto, e che ora era immersa nella più completa oscurità come il resto della stanza. Era lì e fissava il vuoto, il volto illuminato di taglio da una spettrale luce arancione dell’illuminazione pubblica che filtrava dal vetro della finestra, la schiena inarcata in avanti, le mani aggrappate alla plastica del sedile, con il pollice artigliava la stoffa dell’imbottitura, i piedi puntellati al suolo, la gamba sinistra che dondolava nervosamente. Fissava il vuoto, non leggeva né faceva i compiti. Cosa vuoi leggere alle tre di notte, quando tutto in casa è spento e silenzioso? Non si può nemmeno accendere la luce se non si vuole svegliare il proprio fratello che russa nel letto accanto. A quell’ora l’unica è andare a dormire. Ma come dormire quando tutto stava per esplodere sotto i piedi del mondo! Non sarebbe dovuto succedere, semplicemente non sarebbe dovuto. Ma questo a nessuno interessava: stava per succedere. Se lo ricordava quando era cominciato tutto, certo che se lo ricordava. Il ricordo poteva ancora materializzarsi sotto le sue palpebre quando chiudeva gli occhi. Più vivido che mai. Un telegiornale di mezzogiorno. In un certo senso, il primo della sua vita. Di precedenti non ne aveva guardati per più di due minuti scarsi. Gli erano sembrati tutti uguali. Aveva solo otto anni. Ma quel mezzogiorno, quel telegiornale... non si può ignorare chi urla. Uno spettacolo agghiacciante, irreale: due aerei si abbattevano contro due altissimi grattacieli. Fumo. Fuoco. Morte. Il ghiaccio si impadronì del suo stomaco e del suo sangue, quando non vi fu più alcun dubbio che non c’era niente di irreale in quell’irrealtà. I due grattacieli si trovavano a Manhattan, un’isola di New York, in America... allora queste indicazioni gli dicevano poco o niente. Si sa che il sapere aiuta a combattere la paura. Forse, se avesse studiato di più la geografia, se fosse stato un adulto “che le cose le sa”, non sarebbe stato così spaventato. Forse.
All’epoca, per lui quella era solo e semplicemente l’immagine di una morte, di una fine che era solo l’inizio, e che non finì mai più. Non era stato un incidente, -un gruppo di pazzi volevano farci morire tutti e morire assieme a noi perche avevamo un dio diverso dal loro-. E’ impressionante come ai bambini la realtà appaia semplice e incredibilmente esatta. Di tutta quella storia lui aveva capito molto poco, o forse tutto. Nello studio azzurrognolo del telegiornale riflesso da milioni di puntini luminosi appena al di là dello schermo catodico le notizie erano lette e visualizzate a ripetizione, sempre le stesse, con gli stessi nomi, gli stessi posti, gli stessi eventi. Man mano le vicende, dietro la maschera ingannatrice dello sgomento e della ripetitività, progredivano e si modificavano. Così ad un certo punto tutti si ritrovano a parlare dell’Iraq e del suo terribile dittatore, senza che nessuno avesse capito davvero cosa centrasse. Né cosa quest’uomo volesse farci. Fatto stava che bisognava attaccare, combattere. La guerra era la soluzione di chi non sapeva trovarne altre. O per lo meno era la soluzione di quello che bisognava chiamare il presidente degli Stati Uniti. Non doveva essere un genio, pensava in quel momento, tremante di nervosismo, seduto al buio. Lo sapevano tutti, anche i ragazzini come lui: la guerra uccide e basta. Non serve ad altro che a distruggere. Ma pensava anche a qualcos’altro, qualcosa che più che un pensiero era una terribile certezza: quella non sarebbe stata una guerra normale. Già ne aveva sentito parlare a scuola: la paura della Terza Guerra Mondiale. La prima aveva fatto cento milioni di morti. La seconda cinque volte tanto. Alla terza non si sarebbe salvato nessuno. Ed eccola, era arrivata. Lo percepiva nell’aria. Lo avvertiva da quel brivido costante lungo la schiena e quella morsa allo stomaco che nulla avevano a che fare con il freddo. Immagini terribili affollavano la sua testa, troppo scioccata per poterle anche solo comprendere. Prima fra tutte, quell’ultimo telegiornale, quella sera stessa. Non dava adito a nessun equivoco: siamo in guerra contro l’Iraq. Tutto quello che era stato fino ad allora, persino quel terribile attentato, ecco che
improvvisamente non appariva altro che un lungo preambolo prima di questo. Le preparazioni erano finite. E la fine era iniziata. In coda a questo ricordo, immagini apocalittiche: fuoco tonante vomitato dai cannoni dei carri armati, esplosioni a ripetizioni, urla, sangue. Pallore sui volti dei morti. Tutto frutto della sua immaginazione, o al massimo ricordi di sequenze cinematografiche. Lui della guerra non sapeva niente, era di quella generazione che la guerra l’aveva vista solo sulle pagine dei libri o in televisione. Più irreale che mai. Quanto sarebbe stato diverso, invece, esserne circondati, senza il filtro dello schermo o delle pagine plastificate del libro di storia. Avrebbero potuto addirittura cominciare a reclutare in massa nel disperato tentativo di giocarsi il tutto per tutto, in un gioco che non si preannunciava affatto divertente. Da qualche anno a quella parte, avrebbero potuto persino chiamare lui. Non ci sarebbe andato. Non sarebbe stato complice di quella follia. Questo lo sapeva.
Ecco che all’improvviso, un rumore lontano che non faceva parte della sua immaginazione. Aveva una provenienza ben precisa. Si alzò meccanicamente, con lo stesso gesto inquieto voltò la testa verso la finestra e con mano tremante la aprì. Il suono, non più attutito dal vetro, si intensificò. Era il rumore di un aereo, quell’aereo militare che sorvolava in quel momento casa sua. Riuscì a vederlo mentre si allontanava - una sagoma nera geometrica circondata da luci rosse e verdi - e volava via. Verso l’ignoto. Verso la morte. Verso la guerra. Non c’era niente di irreale in quell’irrealtà, non più. L’incubo si era fatto materia, rumore, concretezza. E faceva ancora più paura.

Giovanni Saponaro

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